Sonetti Romaneschi

Da cristiano! Si mmoro e ppo’ arinasco, Pregh’Iddio d’arinassce a Rroma mia. (G. Belli)

Meo Patacca - Canto 6°

Giuseppe Berneri

ARGOMENTO


Doppo che imparò MEO da un intendente,
Come in guerra si pianta uno squadrone,
La mostra in campo fa della su' gente,
E ce stanno a vedetta più perzone.
La nobiltà romana ch'è presente,
Pel viaggio de 'st'essercito pedone
Impromette monete; ancor quà venne
Nuccia, e placato MEO, perdono ottenne.

Già la sera è venuta, e i bottegari
Inserrano le porte, et i mercanti
Già levano le mostre, e i calzolari
Appicciano la lume ai lavoranti;
Se ne vanno a dormì già li fornari,
Per esse a mezza notte vigilanti;
A i cicoriari ormai, par che gli tocchi,
Anna gridanno: cicoria, e mazzocchi.

Bel bello d'ombre pallide s'ammanta
La notte con un fasto minaccioso,
Se gira calched'un, che sona o canta,
Gl'ordina, ch'a piglià vada riposo.
Di volè sola scorrere si vanta,
Guai a quelli, che fanno atto ritroso,
Nell'ubbidir a lei, perchè a 'sti sciocchi
Gli semina i papaveri in tell'occhi.

MEO però poco addormentà si lassa,
E benchè steso in letto, e quasi sviglio,
Una notte gli par, che mai non passa,
Una mattina, ch'è lontana un miglio,
Pensanno al su' squatrone ce se passa;
Ma s'accorge alla fin, che di consiglio
Ha gran bisogno, se de 'ste faccenne,
A dagli chalche indirizzo saria bona,

Mentre col suo penzier dunque raggiona,
Ricordanno si va, che più servizi
Fece una volta ad una tal perzona,
Ch'in guerra havuti havea diverzi offizi
A dagli calche indrizzo saria bona,
Pe' la pratica c'ha dell'essercizi,
Che fanno li soldati, e certamente,
Vuò, che gl'insegni a squatronà la gente.

Co' 'ste quelle cominza a disviarzi
Dal sonno affatto; ma non può vestirzi,
Perchè ancor non è tempo di levarzi,
E sustanza non c'è di radormirzi.
Va spesso alla finestra ad affacciarzi,
Per osserva, se l'aria viè a schiarirzi;
Ma più scura che mai sa mantenerzi,
E lui torna nel letto a intrattenerzi.

Fa questo quello che le Donne fanno
Allor, che tra di loro s'è capata
Nel tempo più a proposito dell'anno,
Per annare alla vigna una giornata.
Senza dormì tutta la notte stanno,
Vorrian vedè, prima dell'hora usata,
Comparì l'alba; smaniano, e non ponno,
L'impacenza scaccià, nè piglià sonno.

Così nell'aspettà, ch'il dì s'appressi
S'inquieta MEO, che spesso dal cuscino
Alza la testa. «Almen veder potessi,
- Dice tra sè, - spuntar l'alba un tantino».
I passari alla fin sopra i cipressi
Sente cantane in un giardin vicino;
E questi con la lor prima armonìa,
Dell'Aurora, che viè, fanno la spia.

Allor con furia zompa giù dal letto,
Rapre d'un finestrino lo sportello,
Si mette non già l'abbito del Ghetto,
Ch'ancor tempo non è da fane el bello.
Ma doppo pranzo si, che sfarzosetto
Comparirà, vestennose con quello;
Un de i sui, per adesso glie n'avanza
Quanto fa 'sto negozio d'importanza.

Scappa da casa, subbito vestito,
Et a quella sollecito s'invia
Dell'amico, e se questo fusse uscito
Gli daria gran fastidio gli daria.
Pe' bona sorte sua, non è partito,
Ma su la porta sta, pe' marcia via,
Per tempo assai, perchè homo è di giudizio,
Lui resce a piglià fresco e a fa' esercizio.

MEO curre, e appena accosto a lui si vede,
Che te glie fa riverenziate a iosa,
E con bel modo a lui licenza chiede,
De potè supplicallo d'una cosa;
Risponne quello allor: «Che vi succede?
È la mia volontà desiderosa
Di farvi ogni piacer; se posso niente
Per voi, ditelo pur liberamente «.

«Signor! Ho un non so che da confidarvi»,
- Reprica MEO - «ma il viaggio d'impedirvi
Io non intenno; voglio seguitarvi,
Se mi date licenza de servirvi.
Così potrò bel bello raccontarvi
Quel che m'occorre, e quello c'ho da dirvi».
«Venite - dice lui - vuò compiacervi,
E in compagnia m'è caro assai l'havervi».

Così d'accordo, inzieme a spasso vanno
E MEO PATACCA la famosa storia
Gli va del su' squatrone raccontanno,
E 'l desiderio, c'ha di buscà groria;
Gli va dicenno poi se dove e quanno
S'ha da fa' la comparza, e con qual boria,
Lo prega, che gl'insegni, acciò non erri,
A schierà in campo cinquecento sgherri.

Quel galanthomo ancor gnente sapeva
Di si' bel fatto, e mentre MEO sentiva,
Ci haveva un gusto granne assai ci haveva,
E a un penzier così bello appraudiva,
Perchè a insegnagli già si disponeva,
Come la gente si distribuiva;
Pe' fa 'na mostra, come fatta annava,
Verzo Campo Vaccino lo menava.

Qui arrivati, gli dà lui la misura,
E delle file, e della lor distanza,
E te gl'insegna con architettura,
A mette 'sta su' gente in ordinanza.
MEO c'ha d'un grann'ingegno l'apertura,
Capisce, e tiè di tutto ricordanza,
E mentre già ne sa quanto gli basta,
Già già metter vorrìa le mani in pasta.

Partono da 'sto loco, e van giranno,
Sempre de 'sta comparza discorrenno;
Va PATACCA l'amico interrogarmo
Di quel, che si fa in campo combattenno.
Così lui molte cose va imparanno,
Chalche dubbio di guerra proponenno;
Già gli pare d'havè saper profonno,
E tra' sgherri a nisciuno esser seconno.

MEO, sino a casa 'l Mastro suo guerriero
Con un garbo grannissimo accompagna;
Gli dice: «Io vi sarò servitor vero,
In Roma, e quanno ancor sarò in campagna;
Perchè Nostrisci è d'animo sincero,
Di dir la verità non si sparagna.
V'ho un obrigo sì granne, e di tal sorte,
Che a mente lo terrò sino alla morte».

Mentre sprofonnatissimo l'inchina,
L'amico lo saluta, e in casa resta;
MEO se la sbatte allor, che s'avvicina
Il tempo già dell'onorata festa.
De fa' 'na spampanata assai zerbina
Laut in campo s'è già messo in testa;
Crompa del fettucciame, acciò compito
Sia l'accompagnamento al su' vestito.

D'havè pe' paggio un regazzin fa prova
D'uno spirito granne, che abbitava
A lui vicino, e in te la strada il trova,
Che con altri raponzoli giocava.
Sa c'ha la matre, e questa a venner l'ova
Appunto allora in su la porta stava;
Sol per quel giorno MEO glie lo richiede,
Lei più che volentier, glie lo concede.

PATACCA a casa torna, e se ne viene
Assai lesto con lui quel ciumachella,
E te gli dà da iaccolà ma bene,
E quello insacca e rempe le budella.
MEO però, che 'l penziero in altro tiene,
Si taffia in prescia in prescia una ciammella;
Beve una volta e presto si spedisce,
E li vestiti subbito ammannisce.

Piglia quel del regazzo, e gliel misura,
E alla vista gli pare longarello,
Ch'è piccolo il bamboccio di statura;
Ma trova che gli va giusto a pennello.
Lo fa vestì con tutta attillatura,
E quel bagarozzetto vanarello
Si pavoneggia, e 'l collo torce e stenne,
Pe' vederzi ancor dreto, e ci pretenne.

Di saia verde è il bel giustacorino,
Con trina gialla, e larga un tantinetto,
C'è 'l battifianco, e drento il su' spadino,
E bianco e a tre cantoni il bel fonghetto;
C'è sopra d'oro falzo un cordoncino,
Al collo ha 'na corvatta col merletto;
Ha calzettine di color di rose,
Legaccie gialle, e bianche le fangose».

Ma poi di MEO PATACCA il giustacore
È propio signoresco, et è sforgiato;
La robba è di muer, et il colore
Fa scialo granne fa perch'è incarnato.
Non solo c'è la vista, ma 'l valore
Se d'oro in quantità tutto è trinato;
Lavorate pur d'oro, in modi rari,
Son l'asole, i bottoni, e l'alamari.

Ha una saracca al fianco sverzellante,
E la guardia d'argento ce risplenne,
Un taffettano di color cangiante
Dal collo insopra al petto se distenne,
Sul lato dritto poi cappio galante
Radunato lo lega, et in giù penne
Un merletto pur d'oro e di gran stima,
Che sta attaccato all'una e l'altra cima.

Sul fongo c'ha 'l triangolo alla moda
Ce sta in giro una bianca pennacchiera,
Ha una corvatta innamidata e soda,
Di robba fina assai, gonfia e leggiera,
C'è il merletto di Fiandra, e glie l'annoda
Un cappio di ponzò, ma in tal maniera,
Ch'innanzi al collo, fa vedè sfarzosa,
Di fettuccie assai larghe una gran rosa.

Già prima di vestirzi gl'era stata
Dal barbier ch'in quel dì gli venne in casa,
La su' cioma benissimo arricciata,
Che fava intorno al viso una gran spasa;
Per esser questa tutta incipriata,
Per havè lui di più la barba rasa,
Aggiustato il filetto e ancor le ciglia,
Una comparza fava a maraviglia.

Col bastoncino in man da commannante,
Co' 'sto vestito gentilhominesco,
Con la vita disposta e assai galante,
Non pareva uno sgherro romanesco;
Lo crederebbe un cavaliero errante
Chi 'l natal non sapesse baronesco,
E par ch'al garbo et all'altiera fronte
Habbia fisionomia di un Rodomonte.

Oh quant'è ver, quanto succede spesso,
Che li vestiti zerbineschi fanno
Comparir un, quel che non è in sè stesso,
Che mascherato va con quest'inganno;
Perchè addosso un bell'abbito s'è messo
Chalch'uno di color, ch'in casa stanno
Asciucchi come sugri, fa del Bello,
Del Riccone, e si sa, ch'è un spiantatello.

MEO PATACCA è però degno di scusa,
Che squarcionà pur troppo gli conviene;
E fa alla fine sol quello, che s'usa
Da chi de fa' gran vista obrigo tiene.
Non è già meritevole d'accusa,
Se là in tel Campo comparì vuò bene;
Ch'a fa' di caposquatra la figura
Ce vuò scialo ce vuò, ce vuò lindura.

Ma per essere un giovane prudente,
A piedi non vuò annà così zerbino;
Pe' non farzi ridicolo alla gente,
S'era già accaparrato un carrozzino.
Ci annerà lui col paggio, e da un parente
Se l'è fatto prestà, ch'è vetturino.
Perchè alla porta è già, scegnono abbasso,
C'entrano, e via lo fanno annà de passo.

Serra le bandinelle oculatissimo
PATACCA, perchè visto esser non vuole,
Col paggio intanto, ch'è spiritosissimo,
Via via dicenno va delle parole.
Lui risponne, e gli da dell'Illustrissimo,
Com'oggi facilmente far si suole.
'Sta cosa non la vuò, nè sopportarla
Può MEO che si risente, e così parla:

«Non mi trattà con titoli o regazzo;
Che tu non sai, quello che io so, ch'è un pezzo;
Chi vuò ciò, che non merita è un gran pazzo,
Se fa degno se fa d'ogni disprezzo.
No, che non voglio sbeffe, nè strapazzo,
Ch'a sopporta 'ste cose non so' avvezzo.
Io stesso in tel vedène assai mi stizzo,
Che spacci il cavalier, chi è nato un zizzo».

«Per dir la verità, creduto havrìa, -
Rispose il paggio, - che l'havesse a caro,
Mi perdoni però Vossignoria.
Che 'sto parlà da un mi' fratello imparo;
Serve a un patron, che vuò che glie lo dia,
Benchè il patre sia stato bottegaro;
Lo chiama, lo richiama, e se ne sfiata,
D'havè più volte l'Illustrissimata».

Rompe il discorzo MEO, che dar si sdegna
A si' fatti spropositi più udienza,
E intanto al paggio molte cose insegna:
Gli dice, qual sarà la su' incumbenza;
Poi, di dagli ad intennere s'ingegna,
Quanno, et a chi far deve riverenza,
Allora, che lui messo in positura,
Farà in campo farà la su' figura.

Così tra loro chiacchiaranno arrivano,
Et ammanniti molti sgherri trovano,
Che in tel vedè, che da carrozza uscivano,
A fargl'ala in un subbito si movano;
Hor mentre a truppe a truppe altri venivano,
Sempre più l'accoglienze si rinovano;
Così a complì tutti bel bello vengono,
Et a ciarlà con MEO, lì si trattengono.

Sta questo in mezzo, e giusto giusto pare
Un signor, c'habbia attorno el vassallaggio,
Che sia nato al commanno, e gli vie' a stare
Col fongo in man, due passi arreto il paggio.
S'incominzano i sgherri ad affollare,
Et ogn'uno di lor vie a su' vantaggio.
Sottocchio osserva MEO, se lì ridutti,
Li dieci capitani ci so tutti.

Non ne vede manca propio nisciuno;
Però gli par, che troppo mal si spenna
Il tempo in ciarle, perch'è già opportuno,
A dar principio alla sua gran faccenna;
Fa cenno in tal maniera, che ciasch'uno
De i dieci commannanti ben intenna,
Ch'a lui s'accosti, e visto appena il gesto,
Tutti attorno gli vennero assai presto.

Gli dice, che de i sgherri cinquecento,
Ogn'un di loro ne haverà cinquanta;
Ch'è in dieci compagnie lo spartimento,
Come lo scritto, che già fece, canta;
Sotto voce gli dà l'insegnamento,
Come appuntino uno squatron si pianta;
Nel largo li conduce, e lì col dito
A tutti insegna e scompartisce il sito.

I nomi son di tutte 'ste perzone,
Favaccia, Meo, Fanello, Dragoncino,
Checco Sciala, Fa Sciarra, Serpentone,
Sputa Morti, Squarcèo, Cencio e Chiappino.
Nel loco ogn'uno sta del su' squatrone,
E MEO, fratanto, alzanno il bastoncino,
Ordina alli soldati che si movino,
E 'l capitanio suo tutti si trovino.

In dieci truppe son distribuiti,
Dodici file in ogni truppa stanno,
Di fronte, a quattro a quattro scompartiti,
Di quarant'otto el numero poi fanno.
Delli cinquanta, che so' stabbiliti,
Due ne restano, e questi che più sanno
Dell'altri sgherri, e che son più valenti,
Essercitano offizio di sargenti.

Fra uno squatrone e l'altro, un spazio resta,
Dove un altro squatron giusto anneria;
Ogn'un de i capitani sta alla testa
In positura con zerbineria.
Tengono in man la parteggiana, e questa
Conoscer fa la capitaniaria,
Vanno li due sargenti, com'è stile,
Innanzi e arreto, ad aggiustà le file.

Fasciolo, fatto alfier, già venut'era,
E preso in mezzo, innanzi a tutti el posto,
Lesto e sfavante a più potè sbandiera,
Et a lui stanno i tamburrini accosto;
Sonano de concerto, e la bandiera
Che ha 'l cuperchio di carte sopraposto
All'insegne ortolane, e fa' vedène,
Le romanesche, a fè ch'assai sta bene.

PATACCA in tutto el tempo di sua vita,
Gusto non hebbe mai simile a questo,
Sol pe' vede la cosa riuscita
Con ordine aggiustato, e bene, e presto.
Perchè ancor non è l'opera fornita,
Lui pensanno già va, di far il resto.
Ma prima vuò aspetta, sieno arrivati
Quelli Gnori, che già furno invitati.

Spasseggia intanto, e affabbile si degna
Hor con questo, hor con quel dei capitani;
Gli va dicenno, quanto far disegna
All'arrivo de i Nobbili Romani.
La maniera di farlo, ancor gl'insegna,
Perchè al par de i soldati veterani
Vuò, che della milizia l'essercizi,
Faccino i sgherri sui, benchè novizi.

Il caso (a dire il vero) è un pò ridicolo,
Lo stari tutti a sentì, come un oracolo,
Qual fusse un gran guerrier, nè c'è pericolo
Ch'a quel che dice lui, si faccia ostacolo.
Sbocca intanto nel campo da ogni vicolo
Gente a furia a vedè questo spettacolo,
Et io, che lo racconto, più ce specolo,
Su 'sto credito c'ha, più ce strasecolo.

Gente minuta viè, gente mezzana,
E non ne manca della prima riga.
Quella, che tardi arriva, e che è lontana,
Via via d'avvicinarzi s'affatiga.
Di carrozze ce n'è una caravana,
Una coll'altra sempre più s'intriga,
Mentre fra queste 'l popolo s'intruglia,
Si fa chiasso, sconquasso, e si fa buglia.

Chi ha paccheta, chi strepita, chi zompa,
Chi 'l pericolo trova, e chi lo scampa
E chi va a rischio ch'una gamma rompa,
Se non è lesto a maneggià la zampa.
Per osserva 'sta romanesca pompa,
Salir sino su l'arbori s'allampa
La gente birba, e chi su le barozze,
Chi s'arrampica dreto alle carrozze.

Queste ogni tanto s'urtano e s'impicciano,
Cascano quelli, e in mezzo allor si cacciano;
Pe' scappane alle rote si stropicciano
Li vestiti, o l'imbrattano, o li stracciano;
Si fan largo, inzinenta che si spicciano,
Chi gli resiste con urtoni scacciano;
Pe' sì gran stento di sudor già gocciano;
Trovano un altro posto, e allor qui incocciano.

'Ste folle sono un taccolo assai brutto,
Fanno spesso succedere del male,
E più d'uno alle volte s'è ridutto
A marcià via, ferito all'ospidale.
Qui pericolo poi c'è da per tutto,
Se in ogni parte c'è una calca uguale;
Perchè poi cresca lo scompiglio allora,
Più d'un calesse s'inframezza ancora.

Il calesse è una sedia galantina
Co' i su' braccioli, e con la su' spalliera,
Et è cuperta o di vacchetta fina,
O di velluto, o pur d'altra maniera.
Ce s'appoggia assai commoda la schina,
E a starce drento è una Cuccagna mera,
Che la perzona, allor quanno ce sede,
Per più commodità, ci ha 'l sottopiede.

Sopra due stanghe posa, e longhe e piane,
Dalla parte di dreto sostenute
Da due rote, non grandi ma mezzane;
Denanzi in alto pur, son mantenute
Dal cavallo ch'in mezzo a quelle stane,
C'ha 'l sellino aggiustato, son reggiute.
Tra le due rote un seditor poi c'è,
Dove, se vuò, ce pò sedè un lacchè.

Questa in fatti è una sedia leggerissima;
Regge el cavallo chi ce sta seduto,
Gli fa piglia 'na curza velocissima,
Massime quanno è l'animai foiuto;
Ce n'è di questi quantità grannissima,
Uno però fra l'altri n'è venuto,
C'ha procurato di pigliasse el posto,
Dov'è PATACCA, o almen poco discosto.

Era questo un calesse col soffietto,
Ch'è una scuffia di pelle sopraposta.
Si tiè alta e stesa, a forza d'un archetto
Di ferro, che chi è drento alza a sua posta.
Nuccia più con timor, che con diletto
Sedèa con Tutia quì mezza nascosta,
Sol pe' vede se MEO nell'osservarla,
O glie fa 'l grugno, o affabbile glie parla,

Da quel ch'il giorno innanzi inteso haveva
Da Cencio e Marco Pepe assai dolente,
Che MEO fusse in gran collera credeva,
Tanto più che sentì, ch'era innocente.
Farzi vedè voleva e non voleva,
Stava tra 'l sì e tra 'l no; per accidente
Glie passa innanzi lui, s'impallidisce
Allora Nuccia, e tutta si stremisce.

S'incontra MEO nelli su' sguardi, e un atto
Fece quasi di sdegno in tel vedella:
In altra parte si voltò ad un tratto,
Facenno finta di non cognoscèlla;
Alfin lei si fece animo, e de fatto
L'intenzione di lui volze sapella.
Alzatasi un tantin vergognosetta,
Abbassa l'occhi, e fa la bocca stretta.

Poi con voce sommessa, e tremolante,
Gli dice: «Serva di Vossignoria!»
PATACCA allor, benchè di lei sprezzante,
Non volze faglie affatto scortesia.
Alzò 'l fongo, ma poco; del restante
Non glie fece altro, che 'sta cortesia:
Ma gnente più s'intrattenè lì, dove
Nuccia haveva il calesse, e scurze altrove.

Restò attonita questa, e i sguardi tenne,
E languidi, e pietosi in MEO rivolti,
E di fissalli in lui mai non s'astenne,
Speranno che di novo a lei si volti;
Più d'una lagrimuccia alfin gli venne
Su l'occhi, e s'accorge, ch'eran già sciolti
D'amor i lacci, s'alle sue faccenne,
Senza abbadà più a lei, PATACCA attenne.

Tutia per consolà quella scontenta
Meglio che sa, chalche raggion glie porta;
Ma il ciarlà di costei più la tormenta,
Tutto l'affligge, e gnente la conforta.
Di quel che disse a MEO, già par si penta,
Se d'esser troppo curza, già s'è accorta;
Pur incoccia a sta' lì, che vuò fa' prova,
S'a pietà del suo mal quello si mova.

Di gran Signori intanto, e Maiorenghi
Il posto le carrozze hanno già preso,
MEO che più non aspetta alcun che venghi,
A far l'offizio suo, sta tutto inteso;
Però stima che prima gli convenghi
Far riverenza a quelli, perchè offeso
Non resti alcun dei Gnori, e in fagli inchino
Ci ha tal garbo, che pare un ballarino.

Ne fa' dell'accoglienze, e ne riceve,
Ma non per questo, gnente si scompone,
Fa con sodezza, quel che far si deve,
Nè se gli pò da' pecca d'ambizione.
Così bel bello el nostro MEO s'imbève
Di massime onorate, et assai bone,
E chi plebeo noi cognoscette prima,
Homo di chalche nascita lo stima.

Scurre fratanto, e ne rimbomba l'aria,
Un mormorìo d'apprausi, e lui ne sente
Un'allegrezza al cor, non ordinaria,
Et appraudita ancora è la su' gente;
Una sverniata fa straordinaria,
Perch'ogn'uno vestito è nobilmente;
O prestati da amici, o presi al Ghetto,
Son abbiti di vista, e di rispetto.

Scialoso ogn'un di loro era comparzo
Pe' formà di soldati un nobbil terzo,
I giustacori favano gran sfarzo
Guarniti bene assai per ogni verzo;
Fanno el campo parè de fiori sparzo
Le pennacchiere di color diverzo,
Ogni fongo ha la sua: son verdi et anche
Molte più belle so incarnate o bianche.

E di corvatte, e di sfettucciamenti,
Io non ne parlo, che ce n'è una soma;
Tanti sgherri, e con tanti abbigliamenti,
Non so se mai prima vedesse Roma.
Pe' fa' maggiori poi gli scialamenti,
Tutti arriccia si fecero la cioma,
E giusto a foggia d'un armacolletto
Portan la fionna attraversata al petto.

Pendèa dal fianco, e questo era el mancino,
La dorindana a tutti assai galante,
Al dritto poi ce stava uno stortino,
Ch'a taglià sino el ferro era bastante;
In spalla haveva ogn'un lo schizzettino
Con canna e con fucile «luccicante;
Così co' 'st'archibusci assai leggeri,
Favano uno squatron di fucilieri.

Alfin da segno alzanno MEO la mano,
Che quel si faccia, ch'ordinò in segreto;
D'ogni squatra si movono pian piano
Sei file, ma di quelle che so arreto;
Marcia ogn'una a sinistra, a mano a mano,
Della milizia al modo consueto;
La settima e la prima, a distaccarzi
Van per ordine, l'altre ad accostarzi.

Quello spazio, bel bello, a impir' si viene,
Che tra un squatron e l'altro era restato;
S'uniscono le file, e così bene,
Che quel vano, che c'era, è già occupato.
Ecco sei file in giù distese, e piene,
Et ecco lo squatron tutto aggiustato.
Le file poi, più dritte esser non ponno,
Son ottanta di fronte, e sei di fonno.

A commannante alcun MEO non la cede;
Mentr'ha i su' sgherri in ubbidillo attenti,
Dice allora: «Impostate», e così chiede
Che Farmi volti ogn'un verzo le genti.
Moverzi in aria subbito si vede
Selva di cacafochi luccichenti;
Ciasch'un s'imposta, et in dir lui: «Sparate»,
Fischiano cinquecento archibusciate.

Si sentì allora un popolar bisbiglio,
Non ne pozzo a bastanza io dar raguaglio,
Fece inarcare a i circostanti il ciglio
Lo sparo fatto a tempo, senza un sbaglio.
Ci fu tra l'invidiosi un gran scompiglio,
E più d'uno di questi magnò l'aglio,
E pe' fagli più crescere il cordoglio,
Risonò 'l prauso sino in Campidoglio.

Mentre c'è chalched'un, che si rammarica,
Miglianta ce ne son, che ce festeggiano,
Perchè hanno vista così bella scarica,
E havella fatta i sgherri assai si preggiano.
Hor mentre ogn'un lo schioppo suo ricarica
Li tamburrini fra di lor gareggiano
In tel batte la cassa, e a mani stese
L'alfier Fasciolo a sbandierà si mese.

Ma in questo mentre succedette un caso,
(A dir la verità) ridicoloso,
Ch'a i sgherri stessi dette assai nel naso,
Se fu per loro, alquanto vergognoso.
Nel maneggià della bandiera, a caso,
Pel moto, ch'era troppo impetuoso,
Si straccia un di quei fogli, ch'era stato
Su l'Insegne Ortolane appiccicato.

De posta. (Oh che disgrazia!) comparisce
Una mezza cocuzza, ma di quelle,
Che sono e tonne e bianche, et assai lisce,
Piegate a foggia d'arco, e longarelle;
Restan però incollate l'altre strisce,
E solo questa dette in ciampanelle,
E causa fu, che la gentaglia sciocca,
Facesse una risata a piena bocca.

Pe' vergogna allor MEO fece la faccia
Del colore d'un gammaro arrostito;
Ma però in testa subbito si caccia
Un penzier dal su' ingegno suggerito.
Quella carta dipinta, che si straccia,
Che l'artifizio fatto ha discropito,
- Dice a più d'uno, mentre glie s'accosta, -
Che fu caso penzato, e fatto a posta.

Hebbe in sì gran disgrazia una fortuna,
E lesto lui, perch'è perzona accorta
Se ne serve, e inventar cosa nisciuna
Potria miglior, della raggion, che porta.
Venne giusto a formà 'na mezza luna
Quella mezza cocuzza in giù ritorta,
E fu del caso assai mirabbil opra,
Ch'una fionna dipinta ci stia sopra.

Piglia PATACCA 'sto ripiego, e dice:
«Bigna si faccia ogn'un di voi capace,
Che 'sta nova comparza non disdice;
Io far la feci, perchè assai me piace.
Ecco un augurio, ch'è per noi felice:
Mentre la copertura si disface,
La luna s'incocuzza, e più non luce,
E a sta' sotto alla fionna si riduce.

Questo vuò dir, che quanno là saremo,
Dove li Turchi mò piantati stanno,
A fè, ch'allora a fè li cuccaremo
Con le saioccolate, che haveranno.
Molto bene vede noi gli faremo,
Che saperanno in campo saperanno,
Pe' daglie presto l'ultima sfortuna,
Le nostre fionne lapidà la luna.

Piace molto 'sta cosa a chi l'intese;
Che fusse vera, ogn'un si persuase,
E una pastocchia tal, perchè si crese,
Da per tutto in un subbito si spase.
Meglio ciasch'uno a riguardà si mese
Quella cocuzza, e stupido rimase;
De i sgherri romaneschi, a queste cose,
Le grolie comparirno più famose.

Alle carrozze allora MEO chiamorno
I cavalieri e principi romani;
Lui ci annò volentieri, e s'accostorno
Due pur delli sui dieci capitani.
Fumo Cencio e Favaccia, e si sbracciorno
Tutti tre, pe' li tanti basciamani
Di qua e di là facenno riverenza,
E li Gnori gli fecero accoglienza.

Voller questi sapène el giorno eletto
A marcià via da Roma, e gli fu ditto
Da MEO PATACCA, che gli parlò schietto
Che provedè prima voleva el vitto.
L'intrattenerzi non è mi' difetto -
Aggiunse doppo, - et io ne resto afflitto;
S'io tutto havessi, annar vorria de trotto,
Ma chi imbarcà si vuò senza biscotto?.

Ogni speranza mia l'ho già riposta
In Lor Signori, e fo' gran capitale
Di calche aiuto, c'haverò di costa:
E qui consiste el punto principale.
In viaggio così longo, e che assai costa,
Senza soccorzo, se staria pur male;
Però la sprendidezza ho in tel penziero
Delli Gnori di Roma, e in questa io spero».

Allor molti di loro garbatissimi
Stimorno 'sto discorzo assai lodevole,
Anzi, che furno in giudicà prontissimi
Quest'opera d'aiuto meritevole.
Alcuni de i più ricchi, e sprendidissimi,
Somma offerirno, più che convenevole
D'oro, con dire a MEO, che s'impegnavano,
E il dì seguente, a casa l'aspettavano.

PATACCA a 'ste proferte già sentiva,
Ch'in drento al petto, el cor se gli slargava,
In sè stesso, pel gusto, non capiva,
E in far inchini si scapocollava.
Quello accettò, ch'a lui si proferiva,
E tutti intanto tutti ringraziava,
Ben osservanno chi gl'imprometteva,
E in memoria benissimo l'haveva.

Voi tra l'altri, o SIGNOR! Voi ch'assistete
Col vostro gran poter al canto mio,
Ch'i mi' verzi, e me stesso proteggete,
E perciò con raggion v'ho capat'io,
Voi di tutti offeriste più monete,
E con un tratto nobbile e natìo,
MEO co' i du' sgherri a voi venir faceste,
E con grave tenor così diceste.

«Più che di voi, d'Anime Grandi è degna
«L'altera impresa, che tentar volete;
«Ma se desìo di gloria oggi v'impegna
«In sì nobil periglio, irne dovete.
«Da un Eroico Valor, non già si sdegna
«Un vil petto agguerrir. Privi non sete
«Della speme, d'haver con merto industre
«In oscuri natali il nome illustre.

«Chi le glorie non ha degli avi suoi,
«Che un povero destin fè al mondo ignoti,
«Ben può, con imitar gl'incliti eroi,
«Plausi acquistar, ch'a i posteri sian noti.
«Se l'altrui merto non ridonda in voi,
«Proprie vantar deve ciasch'un le doti;
«Che di lodi alto grido, anch'è concesso
«A chi li preggi suoi deve a sè stesso.

«Manca talor ne i doni suoi la sorte,
«Ma ardito ingegno può supplir coll'arte,
«Che ad onta di fortuna, anima forte,
«Ciò che quella altrui dona, a sè comparte.
«Ardue seguir della virtù le scorte
«Non si niega a chi ha cor; ite e gran parte
«Dell'altrui glorie a voi sperar conviene,
«S'al desìo la fortezza egual diviene».

Così mio Gran Signor! sò, che parlassivo,
Et ancor sò, ch'in confusion mettessivo
Il povero PATACCA, e l'obbrigassivo
A risponne al discorzo, che facessivo.
Pe' le belle parole, che capassivo,
Pe' le monete, che gl'impromettessivo,
Quanno, che giusto di parlà finissivo,
Così toscaneggia voi lo sentissivo.

«Poscia che m'onorò vostr'Eccellenza
Di tante grazie, sol per mè confonnere.
Vorria d'un Pastor Fido la loquenza,
Per più meglio poter a Lei risponnere.
Altro non ho da daglie in ricompenza,
(La poverezza mia non so rasconnere),
Che la vita, e inzinenta ch'in mè resta,
Sempre per Lei ci metterò cotesta.

Quinci poi fò mie scuse, et il perdono
Gli chiedo, padronissimo Signore,
S'ho saputo ordina poco di bono
Alli soldati miei per fargli onore.
Pratichi cotestoro alfin non sono,
Io poi di comandà non so' 'l tenore;
E compatite da Esso Lei si sperono
Le poche cose, che costì si ferono».

Così ce fece MEO, ma con gran stento,
Del bel parlatorello, e del saputo,
E si mostrò con tutti arcicontento
Di questo, che trovò sì grosso aiuto;
Pe' poi fornì fa festa, el complimento
Volze rifà d'un general saluto;
Voltato ai sgherri, e dato il segno, a un tratto
Il novo sparo a un tempo sol fu fatto.

Allora si, che si sentì gran chiasso
Del popolo, che tutto era commosso;
Con li «Evviva!» se fece un gran fragasso,
E strepitava ogn'uno, a più non posso!
Chi su l'arbori stava, zompò abbasso,
E in tel calà, cascò più d'uno addosso
A chi sotto, o vicino, s'era messo,
E si fecer più buglie a un tempo stesso.

A poco a poco allor, la gente sfratta,
E se ne va via scarpinanno in frotta:
E tempo è già, ch'ogn'uno se la sbatta,
Perchè l'aria oramai quasi s'annotta.
Prima che tra carrozze si combatta,
E da queste i calessi habbian la rotta,
Perchè in salvo ciascun presto si metta,
In tel fuggì, quanto più po', sgammetta.

Trucchian quelle pur via, tutto s'assesta;
Si spiccia il campo, e si fa piazza rasa,
E già ogni capitan marcia alla testa
Del su' squatrone, e se ne torna a casa.
Solo l'Alfier con MEO PATACCA resta;
Tutia poi, che ci fa la ficcanasa,
Che con Nuccia, in calesse è lì rimasta,
Quanno po', azzenna a MEO, non quanto basta.

Lui ben s'accorge, che de quanno in quanno,
Tutia, saluti e smorfie va facenno,
Ma finge ch'altre cose stia guardanno
Coll'alfiero e col paggio discorrenno».
Intanto stava Nuccia singhiozzanno,
A quattro a quattro lagrime spargenno,
Ch'esser ben sa, d'astuta donna i pianti,
Dolce veleno de i currivi amanti.

Ce fava, è vero, MEO dell'homo serio
Senza havè manco un fine immagginario
Nelle zurle d'amor; ma refrigerio
Nell'armi haveva, e questo era el su' svario.
Pur di Nuccia, osservato el piagnisterio,
Prova in tel core affetto assai contrario.
Gli pare, che sia cosa da non farla,
Da zotico partire, e lì lassarla.

S'accosta, e dice con serena faccia:
«'Sto piagnere cos'è?, Signora Nuccia!»
Ma lei non parla, e lo scuffin si caccia
Su l'occi, e così fa' la modestuccia.
Tutia risponne, e dice: «Poveraccia
Di schiattacori fiera scaramuccia
Prova, e da questa, giusto nella gola,
Quanno vuò uscì si strozza la parola.

Vorria potervi dir, che fu innocente
Quando fece quell'atto stravagante,
Nel distaccarvi come impertinente
Da casa sua, nè più volervi amante.
Ve gli dipinze per un inzolente
Calfurnia, e gl'appettò che ingiurie tante
Voi gli diceste, e a quella vecchia pazza
Dette fede 'sta povera ragazza».

Seguita Nuccia a piagnere, e non fiata,
Ma fa la gatta morta, e benchè queta
Parla con i sospiri, e se ne sfiata
D'havè da MEO risposta almen discreta.
Allor lui dice: «Ho già mezz'annasata
La cosa, come annò: Nuccia t'acqueta,
Che, come ho ben la verità saputa,
Mi passerà la collera, c'ho avuta.

Domani, a casa a ritrovà te vengo,
Perchè 'st'imbroglio, ch'è tra noi, si strichi.
Pe' giovane onorata io non ti tengo
Se come passò el caso non me dichi.
Io t'imprometto, e a fè te lo mantengo,
Ch'allora ad esser tornaremo amichi,
Ma con questo però, che non ardischi
Dirmi ch'annà alla guerra io non m'arrischi.

Come appunto succede all'aria, allora,
Ch'annuvolata, torbida e piovosa,
Prima fra lampi e toni si scolora,
Poi schiarita si fa più luminosa;
A Nuccia così avvien, che s'addolora
Tra' fiotti e tra' sospiri piagnolosa,
Poi con la faccia allegra e risarella,
Si rasserena, che non par più quella.

Parla alfin frollosetta e smorfiosina,
E dice: «Ho intesa al cor così gran pena,
Che so' stata al morir quasi vicina,
Et hora ho fiato di ridirlo appena.
La grazia a me promessa domattina,
Al vostr'affetto schiava m'incatena,
Che questo è un gran favor, se co' le bone
Vi piace di sentir la mi' raggione.

Tutto noto vi sia; poi mi contento,
restar sola al dolor, e di voi priva,
Che sarà men crudele il mio tormento,
Quando saprò ch'in grazia vostra io viva.
Calfurnia fu che fece il tradimento,
Et io troppo nel crederglie curriva,
Fui rea, ma degna d'esser compatita,
Che feci male è ver, ma fui tradita».

«Ce semo intesi, - disse MEO, - ce semo,
A rivedecci, e meglio assai dimane
La potremo discurre la potremo,
Ch'adesso me ne vò, perchè ho da fane».
«A casa dunque, noi v'aspettaremo»,
- Rispose Tutia -, e lui: «Bacio le mane».
Nuccia che contentissima si mostra,
Graziosetta gli dice: «Serva vostra».

Piglia el calessio allor la su' carriera
Che Nuccia e Tutia il fanno annar a volo,
E MEO, quanno che ogn'un partito s'era,
A casa torna coll'alfier Fasciolo.
Si contenta, per essere già sera,
E perchè lì quasi restato è solo,
D'annà col paggio, e a piedi si scarpina,
Che non c'è la carrozza vetturina.

Fasciolo allor con lui batte 'l taccone,
L'accompagna, e in partì fanno assai quelle.
Salisce il paggio su col suo patrone,
Lassa il vestito e l'altre cose belle;
Che da su' Mà ritorni, MEO gl'impone,
E mentre pe' crompasse le ciammelle
Un briccolo , ch'è novo, in man gli mette,
Le fangose, gli dona, e le calzette.

Di tanta grolia poi gonfio lui resta,
Così sazio de prausi, e d'untature,
Che nè fame, nè sete lo molesta,
E sol si pasce de' ste gonfiature:
Sonni saporitissimi gl'appresta
Il cor, che scialo fa tra le venture.
La gnagnera gli viè; pe' no svegliarlo
Inzinenta che dorme, io più non parlo.

1922

Fine del Sesto Canto.