Sonetti Romaneschi

Da cristiano! Si mmoro e ppo’ arinasco, Pregh’Iddio d’arinassce a Rroma mia. (G. Belli)

Meo Patacca - Canto 9°

Giuseppe Berneri

ARGOMENTO

Spasima Nuccia assai pe' gelosia,
Ma non è vero poi, quel che lei penza:
S'imputa MEO d'uninsolentarìa,
E lui sa discropì' la su' innocenza;
Scarpina intanto ogn'un, e ha fantasia
D'annar a vede la compariscenza
D'altre feste ammannite; et in più banne,
Ci son machine, e c'è concorzo granne.



Tolla con Tutia era di già salita
Nella stanza di sopra, e in adocchialla
Nuccia a un tratto restò come intontita,
E appena fiato havè de salutalla.
Quella renne il saluto, assai compita;
Da capo a piede intanto, d'osservalla
Nuccia non lassa, e in un'occhiata sola
Tutta la squatra, e non fa ancor parola.

La ciospa vede Nuccia, che s'ammusa
Al venì de 'sta giovane vistosa
E che resta sospesa, anzi confusa,
Per esser di natura assai gelosa.
Accosta tre sediole, e fa la scusa
Con dir, che non ritrova miglior cosa
Nella su' guardarobba, e co' 'sto scherzo,
Senz'altro repricà sedono in terzo.

Et ecco si fa un'atto di commedia,
Perchè di Nuccia il cor crepa d'invidia,
La Scarpellina coll'occhiate assedia,
Par che con quelle far gli voglia insidia.
A lei più allor s'accosta con la sedia
E in sempre più guardalla, ce profidia.
Già l'affetti di MEO, quasi ripudia,
Di saper chi è costei, tra sè già studia.

Inteso haveva prima dalla buscia
Che risponneva in sopra della porta,
Di MEO la voce, e questo assai gli bruscia
Perchè una fiera gelosia gl'apporta:
Non sa se sia Donna onorata, o sdruscia,
Per indurla a scropì da sè la torta
Glie fa bel bello, acciò al su' fine arrivi,
Quest'interrogatorij suggestivi.

«Per quanto so veder, Vossignoria
È sposa nè? Non credo d'ingannarmi;
Questo abbito mi pare, che ne dia
Tal contrasegno, che potrìa bastarmi;
Pur m'è caro saper, se il vero sia,
E dell'ardir La supplico a scusarmi,
Che per nostra natura, in certe cose
Noi altre donne semo un pò curiose».

Tolla, che ci pretenne, e assai glie piace,
De fa' pur lei la bella parlatrice,
Pe' mostrasse una giovane vivace,
Con un po' di sogghigno, così dice:
«Vedo Signora mia, che si compiace
Scherzar con me, che son Sua servitrice,
So' sposa in quanto, ma nel dire ha torto,
Che ne dia segno l'abbito che porto.

Vesti son queste mie, da bon mercato,
robba ordinaria assai da poverella,
E un abbituccio, che l'ho merlettato,
E liscio lo portavo da zitella.
Non ha volzuto mai ch'habbia sforgiato
Mi' marito, che in testa ha certa quella,
Con dir, che non sta bene, che sian visti
Tanti lussi alle mogli degl'artisti».

«E qual'è, - dice Nuccia -, il Suo mestiere,
S'è lecito saperlo?». Ha gran premura
D'intender, se 'ste cose son poi vere,
Perchè di calche trappola ha paura.
Tolla gusto non ha di far sapere
La scarpellineria, ma con drittura
Risponne, e tell'imbroglia, e fa' pulito:
«Lavorator di Pietre è mi' marito».

«Farà dunque l'orefice» de fatto.
Nuccia glie replicò. Ma Tolla allora
Fece un tantin di smorfia, et in quell'atto
Disse, scrullanno il capo: «Nò signora.
Io non parlo di gioje, error ho fatto,
A non spiegarmi meglio. Lui lavora
Pietre, che non son manco marmi fini,
Ma bensì sassi grossi, e travertini».

«Si, si, fà lo scultore, adesso ho inteso,
Me ne rallegro assai» Nuccia ripiglia,
«Già me l'immaginavo, e già l'ho creso,
Ch'era civile assai si' bella figlia».
«A Lei piace il bel dir», così ripreso
Fu da Tolla il discorzo.» S'assomiglia,
Ma non è questa l'arte, non è in quanto,
Mio marito scultor. Ma sta lì accanto».

Nuccia s'accorge allor, perch'è una quaglia,
Che l'impiccia costei, nè parla schietto,
Quel che vuò dire intenne, e non si sbaglia;
Si volta a Tutia, e te glie fa l'occhietto.
Ma pe' 'ste cose più non la travaglia,
Perchè cognosce, che glie fa dispetto,
In volerla sforzà con più parole,
A faglie dir, quel che lei dir non vuole.

Parla d'altro così: «Mi favorisca,
Se non è impertinenza, questa mia,
Di dirmi il nome Suo; mi compatisca,
Perchè a mente io tener me lo vorria.
Già che vuò 'l caso, che La riverisca,
Troppo scortese et incivil sarìa,
Se saper non volessi a chi ne devo
Questo favor sì granne, ch'io ricevo».

Allor Tolla: «Signora! mi mortifica,
Se di una serva Sua vuò haver memoria.
Per ubbidir, da me se Le notifica,
Ch'il mio nome legitimo è Vittoria.
Ma dalle genti in parte si falsifica,
Che di me fanno al solito l'istoria
Di chiamarmi col nome frollosetto,
E mi dicono Tolla a mi' dispetto».

«Questo spesso succede, e chi Lauruccia,
E chi chiamano Lulla, e chi Palmina».
L'altra rispose: «A me dicono Nuccia,
A chi Tilla, a chi Pimpa, et a chi Nina,
A chi, dall'arte poi, la Barbieruccia,
A chi l'Ostessa, a chi la Scarpellina».
Così una staffilata glie l'avvia:
Quella finge ch'a lei data non sia.

Seguita Nuccia a interroga l'amica
Intorno a quello, ch'assai più glie preme,
E con arte procura, che glie dica,
Perchè lì venne con PATACCA insieme.
Saper il nome non gl'importa mica,
Nè il mestier del marito, e solo teme,
Che di costei PATACCA amante sia,
E glie rosica il cor la gelosia.

Così dunque glie parla: «Come ha viste
Signora Tolla delle belle cose?
Sento che molte case sian proviste
Di belle illuminate ', e assai gustose.
So, che molte mie amiche, benchè artiste,
Perchè di farsi onor volonterose,
N'han preparate certe in varie bande,
Che credo voglin dar un gusto grande.

Le genti ricche poi, ch'hanno da spennere,
Havran saputo meglio applaudire,
E quantità di lumi fatti accendere,
E messe in mostra cose da stupire.
Ma, che raggiono? e che vogl'io pretendere
Quel, che c'è da veder, volerglie dire?
Da lei stessa, ch'il tutto, se non sbaglio,
Visto haverà, ne posso haver raguaglio.

Il signor MEO, che seco La condusse,
Ch'ha maniera d'entrà per tutti i lochi,
Come appunto il patron d'ogn'uno fusse,
C'havrà fatti veder e lumi e fochi,
Dall'A per fino a conne, ronne, e busse.
Lui sa, de i pari sui, ce ne son pochi,
E col suo ingegno acquista onor e fama,
E signor della festa ogn'un l'acclama.

Ma perchè lo conosce molto bene
La signora Vittoria, altro non dico,
Sol dirò, che lodarlo a ogn'un conviene,
Se della verità non è nemico.
È fortunata poi, se con lei viene
Servendola, sì buon, sì degno amico;
A creder io mi dò, ch'un pezzo sia,
Che conversi con lui Vossignoria».

«Signora Nuccia! mi fo meraviglia,
Che Lei tacciar mi voglia su l'onore».
Tolla glie risponnè. «Sappia, che piglia,
Per dirgliela alla schietta, un grosso errore.
Troppo male il sospetto la consiglia,
Se doppo havermi fatto ogni favore,
Mi scusi in grazia s'io così raggiono,
Me gli fa creder quella ch'io non sono.

Giuro, ch'in tutto il tempo di mia vita
Una sol volta ho 'l signor MEO veduto,
E questo fu, per essermi smarrita,
Per un caso a me in strada succeduto.
È bensì verità, che già sentita
Havevo la sua fama, e ancor saputo,
Ch'era un giovane sodo, e savio assai:
D'andar con lui, per questo io mi fidai».

Nuccia le guancie allor vergognosette,
Del color d'una rosa, ch'è incarnata
Le tinze, e ben intanto cognoscette,
Ch'in parlà troppo libera era stata.
Con un ripiego al mal rimedio dette,
E fu d'havè la torta rivoltata:
«Non parmi, - disse, - haverla offesa in niente,
Pigliando il signor MEO per Suo parente.

La prego a perdonarmi, ch'io per sogno,
Non pretesi macchiar l'onor di Lei,
E con me stessa assai me ne vergogno,
Che meglio farmi intender non sapei»,
«Di più scusarsi no, non c'è bisogno»,
Tutia allora interzò. «Non crederei,
Che per una parola a caso detta,
Questa signora in collera si metta».

Di risentirzi subbito s'astenne
Tolla, che mostrà volze haver già crese
Le fatte scuse, e che più non s'offenne,
Dello sconcio parlà, che già n'intese.
Il caso, ch'al marito e a lei n'avvenne,
Messosi a raccontà, fece palese
La causa, perchè MEO prima glie parla,
Perchè fin lì poi volze accompagnarla.

Quanno Nuccia sentì la storia tutta,
Scacciò dalla su' mente ogni suspetto,
E fece giusto, come fa una cutta,
Ch'entrò a caso in tel fango inzino al petto.
S'impacciuca, sta grufa, e poi s'asciutta,
Messasi al sole in su una loggia, o tetto;
Slarga l'ale, si sgrulla, si rimena,
Zompicchia, glie ritorna e fiato e lena.

Così Nuccia, che prima era scontenta,
Et agrufata pe' li gran penzieri,
Che divorarzi el cor par che si senta
Dal dente dell'invidia, e che disperi,
Si ringalluzza adesso, et è contenta,
Mentre i suspetti sui gnente son veri,
All'occhi il brio, torna alla bocca il riso,
La pace al core, et il colore al viso.

Zompa su dalla sedia allor la vecchia,
Che così allegra la patrona adocchia,
E quello, che sentì con tese orecchia,
S'accorge bene, che non è pastocchia.
Pel gusto ch'ha, la tavola apparecchia,
Stritola sotto a i piedi una conocchia,
Vicino al focolare s'accovacchia,
Foco gli dàa con appiccià una tacchia.

Le legna accende poi con il soffietto,
Fa in prescia una frittata alla padella,
Riscalla ancora un quarto di crapetto,
E frigge parte d'una coratella,
Dell'altra in un tegame fa un guazzetto.
Et affettata certa mortatella,
Mette all'ordine il tutto, e non è moncia,
Ma presto presto l'insalata acconcia.

Fornite 'ste faccenne, fa l'invito
A Tolla, che ricusa schizzignosa,
Con dir, che ha da cenar con su' marito,
Che già in casa ammannita era ogni cosa.
Aggiunge poi, che havendolo smarrito,
È tutta inquieta, tutta penzierosa,
E perchè ancor di lui nova non hebbe,
Non potrìa manda giù manco il gilebbe.

Nuccia la prega ancor, ma lei più dura,
È d'una selcia e d'una travertina,
Più d'un aspida sorda, non si cura
Di mostrarzi cocciuta, e più s'ostina.
Vedenno perza già la lisciatura:
«State almen qui alla tavola vicina»,
Dissero Tutia e Nuccia, e lei disposta
Si mostra ad ubbidire, e allor s'accosta.

Taffiano quelle, e questa a denti asciutti
Sta lì a sedè, facenno la svogliata,
Benchè avanzi la robba, e che si butti,
Per dir così, sta sempre più incocciata.
La vecchia alfin, prima che venga a i frutti
Glie dà sul pane un pezzo di frittata,
E vuò pe' forza vuò, che la riceva,
E che alla meno una sol volta beva.

Tolla 'sta cortesia non la rifiuta,
Ma sol perchè sforzata è dalla grima,
Pe' non sentilla più, s'è risoluta
Far quello mò, che far non volze prima.
Con un sol brinze tutte due saluta,
E da loro quest'atto assai si stima,
E con prescia ignottito giù 'l boccone,
Sciuccanno el vetro, fanno a lei raggione.

Mentre 'ste donne a tavola solazzano,
E con belle parole s'accarezzano,
Più facezie raccontano, e sghignazzano,
E a trattarzi da amiche, allor s'avvezzano;
Taccolanno sta MEO, che l'imbarazzano
Certi, che falze accuse ricapezzano,
E volenno attizzà per quanto pozzano
Titta contro di lui, pastocchie accozzano.

Più d'uno, ch'ucellà voluto havrìa
Tolla, al gonzo marito da ad intennere,
Che MEO se l'era già menata via,
Forzi per non volerla a lui più rennere.
Titta di rabbia allora e gelosia
Si sentì tutto in drento al core accennere,
Cerca PATACCA e Tolla ancor con lui,
Con penzier di far male i fatti sui.

Ma gnente fu difficile, il poterlo
Presto ricapezzà, s'in tel cercarlo,
Cercato era pur lui, senza saperlo,
Perchè girava MEO per incontrarlo.
Come ben spesso in te la macchia il merlo
Spiega il volo qua e là, senza fermarlo;
Così questi, mò in su, mò in giù scarpinano,
Pur alla fine a caso, s'avvicinano.

Titta, appena dà in MEO 'na sguerciatura,
Ch'inverzo lui si spicca, e grida forte:
«Dov'è mi' moglie? a noi! La tu' bravura
Mica scampà, non ti farà la morte».
La lama intanto sfoderà procura,
E MEO pe' rabbia fa le labra smorte,
Ma roscio el viso, e t'alza immantinente
La man dritta, pe' daghe un sciacquadente.

Nel tempo stesso della sferra il pomo
Con la mancina gl'aggrappò. S'astenne,
Perchè la volze fa' da galantuomo.
Di dagli allora un sganasson solenne:
«Senti! - gli dice poi - di farci l'homo,
Con me, non ti riesce, e se ti venne
Suspetto in capo, senza smargiassate,
Se parla, e non se fanno 'ste levate.

Io non t'abbacchio, che te compatisco,
Perchè non sai quel che per te facèi,
Sol perchè la tu' moglie custodisco,
Tu contro me, così rugante sei.
Senti! sgherretto mio, non m'infierisco,
Quanto pe' scrapicciatte io doverei,
Perchè prima il servizio che t'ho fatto
Voglio che sappi, e che in bravà, sei matto».

Come un gallo ch'inarbora la cresta,
Quann'alza e slunga il collo, e poi s'imposta
Contro d'un altro gallo, e gli fa testa,
E il becco a quello del nemico accosta,
Se dall'acqua bagnato a caso resta,
Che vien da una finestra sopraposta,
E l'ale e 'l collo abbassa, e de fà guerra
Più non si cura, e si rannicchia in terra,

Così Titta atterrito si ritira
Tutto in sè stesso, e più non fa del bravo
In osservà di MEO la rabbia e l'ira.
Dice: «Io vi sono, e servitor, e schiavo;
Un chalche malalingua hebbe la mira
Di metter mal tra noi, mentre cercavo
Mi' moglie, e m'appettò la falza spia,
Che lei mi fù da voi menata via».

«So' giovane onorato, e no di quelli,
- Gli rispose allor MEO, - caposventati,
Che far ci vonno l'innamoratelli,
E delle belle figlie i spasimati.
Bigna distingue da 'sti bricconcelli
'Sto fusto, che quei modi ha sempre usati,
Che son civili, rispettosi, e onesti,
Nè fece mai quel ch'ogni dì fan questi».

Ciò ditto appena, a racconta si mette
Tutto il caso, che prima era successo
Minuto per minuto, inzino a un ette.
Gli dice poi, quel ch'operò lui stesso.
Titta, in sentir la cosa come annette
Disse a PATACCA: «Io ben conosco adesso,
Quanto ve sò obrigato, e quanno cresi
Tradito esser da voi, quanto v'offesi.

Di chiedeve il perdon quasi m'astengo,
Se nol merito propio, (e pur è vero),
Che sò un gran animale, allor ch'io vengo
Ad affrontarvi, imbestialito e fiero;
Ma perchè Voi, tra l'altri, il Maiorengo
Sete nel favorir, da Voi lo spero;
Per questo, supplichevole vel chiedo,
Che siate per negammelo non credo».

MEO, che spicciasse da costui vorrìa,
Che ha prescia di sbrigà le su' faccenne,
Ce fa pace ce fa; con lui s'avvia
Dove sta Tolla, che glie la vuò renne.
Sfilano presto presto in compagnia,
E poco tempo in tel camin si spenne,
Son già vicini, e MEO la porta adocchia,
S'accosta, et assai forte la sbatocchia.

Pe' non perder più tempo, lì de fora
Dice: «Madonna Tutia giù currete,
Venga con voi la gnora Tolla ancora,
Che su' marito è qui, dirglie potrete».
La scarpellina tutta si rincora,
E grida di là su: «Titta! ci sete?
Uh! manco male, se 'sta cosa è vera,
Vi dò, signore mie, la bona sera».

Zompa costei giù pe' le scale a un tratto,
E la seguita Nuccia, e Tutia puro;
Titta resta in vedetta, sodisfatto,
Mentre che l'onor suo stava in sicuro.
Nuccia, che vede messo in chiaro il fatto,
Che come prima non stà più allo scuro,
Brilla de gusto, e con allegra faccia,
Tutta dal cor la gelosia discaccia.

Tolla, mentre al marito fa accoglienza
Di riverì PATACCA non si sazia;
Racconta a Titta la su' diligenza,
E lodanno lo va con bella grazia.
Perchè la liberò dall'insolenza
Di tanti ciovettoni, lo ringrazia,
E Titta ancora fa le parti sue,
Sparanno cirimonie tutti due.

MEO, pe' dar l'incominzo alle su' feste,
Da 'sto cerimonia presto si spiccia,
Dice in tanto alle donne: «Annar potreste
Dove il foco alle machine s'appiccia».
S'offre lo scarpellino a servir queste, E
PATACCA l'approva, e se l'alliccia;
Ma prima a tutti prima fa un saluto,
Perch'è sgherro garbato e creanzuto.

Ci hanno gusto d'annà girandolone
'Ste femmine, a vedè li tanti sciali,
Ch'in ogni strada e piazza e ogni cantone
Ammannirno le genti dozzinali.
Tutia e Nuccia, che stanno un pò sciattone,
E di cocina ancor hanno i zinali,
Vonno tornare a salir su a mutarli,
Et a metterzi ancora i virli varii.

Fanno, pe' non usar incivilezza,
Salir Tolla, e giù resta mastro Titta;
S'abbelliscono intanto con prestezza,
La scarpellina osserva zitta zitta.
Nuccia, pe' fa spiccà la su' bellezza
Quanto più pò, s'acconcia, e ritta ritta
Sta innanzi al vetro sta, dove si specchia,
E si rinfazzonisce ancor la vecchia.

Questa, un largo zinal di filindente
Si mette, ch'è all'antica, ma galante,
Pigliato in presto da una su' parente,
Si lega uno scuffin sotto al barbante:
Nuccia, che lì teneva ogn'ingrediente
Per aggiustà la testa assai sfavante,
Si mette in capo, come adesso è stile,
Di scuffie e sfettucciate un campanile.

Lei puro ha 'l su' zinale, ch'in effetto,
Tal non è, ma più tosto un zinalino
Di cambraia sottil, ma però stretto,
Fatto all'uso moderno, e galantino.
Sotto, e da' fianchi è cinto da un merletto
Alto quasi ch'un palmo, et assai fino.
È di punto, e lo fece da sè stessa,
Perchè a fà 'sti lavori è dottoressa.

Rescon di casa 'ste tre donne unite,
E mastro Titta pur, che l'accompagna,
E pe' tenerle poi ben custodite,
Glie va accanto, e da lor non si scompagna:
A girà pe' le strade, che rempite
Son di lustrori, è propio 'na Cuccagna,
Et ecco, ch'a vedè s'incontran giusto
Un certo non so che, che gli dà gusto.

In una strada larga, e ritta in modo,
Che per un pezzo non ha svoltature,
A due legni, piantati in terren sodo,
Stan legate, di stracci due figure.
Una è il Gran Turco, che pe' rabbia un ciodo
Rode co' i denti, e pe' le su' sventure
Par, che tarrocchi, e l'altra è del Vissir,
Che seppe assedià VIENNA, e poi fuggir.

Quello sta iscontro a questo, ma discosto
Da cento passi in circa; assai stirato
Per aria uno sforzino c'è infraposto,
Al collo de i due Turchi avviticchiato.
Steso è a lungo pe' dritto, et assai tosto;
Un razzo, ad un de' capi sta legato,
E quanno da chalch'un se gli dà foco,
Scurre giù pe' la corda, e fa un bel gioco.

Ecco s'appiccia, e dal Gran Turco pare,
Che pe' bruscià 'l Vissirre mammalucco,
A lui s'addrizzi, e quello va ad urtare
Con gran velocità, di questo al mucco.
Si vede allora il razzo sfavillare,
E abbrustolir la faccia al vecchio cucco,
Che tutti lo figurano barbuto,
E pe' maggior disprezzo, ancor canuto.

Assai stupisce qui la gente sciorna,
Che della corda non s'è gnente accorta,
Ma più in vedè, ch'il razzo arreto torna,
E appuntino al gran Turco si riporta;
Ma mentre giù con impeto ritorna,
Un novo sbruffo di faville porta
Di quello in sul mostaccio, e par che sia
Vendetta del Vissir, ch'a lui l'invia.

Oh, qui, si strepiteggia, e si sghignazza.
Qui si cresce la calca a più potere,
Per così dire, il popol ce s'ammazza,
Del razzo in aspettà nove carriere.
Non bastarebbe manco una gran piazza,
A capì tanta folla; hanno a piacere
Truppe d'homini, e femmine assai folte,
Razzesche scorrerìe veder più volte.

Ma intanto altrove un stravagante sono,
Le chiama di tamburri assai scordati,
Però in realtà molto diverzo è il tono,
Per essere bigonzi rivoltati.
Molti n'han presi i sgherri, e se li sono
Un per uno, alla cintola attaccati;
Sul fonno con tortori van battenno,
E un tuppe tuppe, allor si va sentenno.

Poi vengono a cavallo a du' asinelli,
Fingenno d'esser Turchi, dui birbanti,
Dreto gli vanno certi sgherroncelli,
Stracciati, furibondi, e minaccianti.
Gli frustano le spalle, e fanno quelli,
E smorfie, e torcimenti, e strilli, e pianti;
Ma fingon, dalle fruste, haver tormento
Perchè vessiche son piene di vento.

Vien doppo un sumarotto un pò mulesco;
In testa ha un gran turbante a posta fatto,
In su la groppa un manto vissiresco,
Et alla coda c'è attaccato un gatto,
Che lo sgraffigna, e più d'un romanesco
Rifilanno lo và con un suatto;
Così il Turco si sbeffa; ma qui lasso
'Ste baie, e a dir cose più belle io passo.

Alzato, giusto in mezzo a una piazzetta
C'è un palco, ch'a vedello dà spavento,
A prima vista sì, ma poi diletta,
Che piace, benchè tetro, l'ornamento;
Un panno nero su ce s'imbolletta,
Ogni cantone ha la su' torcia a vento;
Parapetti non ha, ma solo il piano,
Acciò, chi è sopra, spicchi da lontano.

Un pezzo d'homaccion brusco alla cera
Sta su sbracciato, e non è già un fantoccio,
Ma in carne e in ossa una perzona vera,
Benchè immobbile stia, come un bamboccio.
Grufi i capelli son, la barba è nera,
Ha un roscio berettin fatto a cartoccio,
Con una sciabla in man da malandrino,
In atto sta di scapoccià 'l vicino.

Accanto a lui c'è un Turco a man dereto
Legato a un trave, e questo non arriva
Al collo, ma ce manca un mezzo deto,
Quanto non c'urti nel taglià, la sciva.
Col capo basso sta tremante e queto,
E questa puro è 'na perzona viva:
Al turbante, s'accorge chi l'adoccia,
Esser Bassà, da faglie la capoccia.

A poco a poco, il popolo s'ammassa,
Perchè la gente viè di tanto in tanto;
Dalla su' positura assai smargiassa
L'ammazzatore, alfin, si move alquanto;
Alza allora un riverzo, et in giù lassa
Scorrer la man con impeto tamanto,
Ch'in un attimo, a fè gran cosa è questa.
Con un colpo, al Bassà taglia la testa.

Sbalza questa sul palco, e il sangue schizza
Dal collo a tutta furia, et in giù penne
Dal trave il busto, ogn'uno il capo arrizza,
Slarga l'occi, e su i piedi ancor si stenne;
Resta poi for di sè la gente zizza,
Nè sa cose capir così stupenne,
E 'sta scapocciatura, ch'è in effetto
D'un'homo vero, è orror, più che diletto.

Fu questo, a dirla giusta, un gabbamento,
Che fece un ingegniero assai saputo,
E il crapiccio d'un tal ritrovamento,
A prima vista non fu cognosciuto;
Di raso giallo addosso un vestimento
Portava quel Bassà, d'oro intessuto,
Robba propio da gente signoresca,
Assai largo, assai longo, alla Turchesca.

Era aggiustato in modo che cropiva,
Quasi il su' capo tutto, e questo haveva
Attorno robba assai, ch' i vani empiva
Vicini al collo, e spalle esser pareva.
La capoccia per tanto, che appariva,
Era finta, e la vera s'ascondeva;
Un artifizio qui occultato stava,
Che calched'un non se l'immaginava.

Fu pigliata, pe' fa' 'sta bella botta,
D'una cucuzza longa una gran fetta,
Poi giusto alla misura fu ridotta
D'un collo umano, così tonna e stretta;
Sul capo vero, quanno il dì s'annotta,
La finta gola l'ingegniero assetta;
Su ci appoggia una testa, ch'è pur finta,
E che ha la faccia al natural dipinta.

Ma tra ch'il gran turbante giù calcossi
Sino alle tempie, e tra la cropitura,
Che fanno al viso, i baffi longhi e grossi
E tra l'artifiziosa dipintura,
Vero pareva il grugno, e rimediossi
Del corpo di quell'homo alla statura,
Diventata del solito più longa,
Se il collo cucuzzesco assai la slonga.

Le zampe tutte, e in parte le staiole,
Havenno il palco un buscio fonnarello,
Stavano sotto, e mezze gamme sole
Arrivavano sopra al par di quello;
La vesta stesa, come haver si suole
Da i Turchi, a chi non ha più che ciarvello,
Non fa cognosce gnente la mancanza,
Perchè tocca le tavole, e n'avanza.

Vivo dunque apparisce l'homo intiero,
Perchè ha dal capo in giù moto vitale,
Et il mostaccio poi, par che sia vero,
Per esser proprio fatto al naturale.
Non arrivò già subbito il penziero
Di molti a giudicà, che non sia tale;
Anzi più d'uno ci haveria scommesso,
Ch'era quel capo di quell'homo istesso.

Perchè sia verisimile l'effetto,
Perchè ben fatta l'opera si dica,
C'era piena di sangue di crapetto
In drento al collo finto, una viscica.
Mentre scarica il colpo, c'ho già detto,
Inverzo di colui sciabla nemica,
Par che si tagli, allor ch'il sangue spruzza,
Una gola, e si taglia una cocuzza.

Mentre si fa di maraviglia un atto
Dalla gente concorza, ch'era molta,
E resta calched'un, quasi ch'astratto,
Una tenna ch'è sopra, ecco vie sciolta.
Il palco in tel calà crope de fatto,
Pe' far il collicidio un'altra volta.
Si riaggiusta il negozio, e curiose
Van via le genti, pe' vede altre cose.

Si sentono però de i discorzetti
Da certi saputelli chiacchiarini;
Finto capo sul ver come s'assetti,
Strologà vonno, e fanno l'indovini;
Ma troppo a fè ridicolosi detti
Escon di bocca de 'sti dottorini,
Che quanto più sacciuti, ci pretendono
Di sapè quello ch'è, meno l'intendono.

A poco a poco il popolo si sfolla,
E MEO spasseggia d'un cavallo in sella,
Mentre lo scarpellin con Nuccia e Tolla
Va giranno, e con lor Tutia spianella.
Come due legni appiccica la colla,
Così la sposa è accosto alla zitella,
C'ha paura la povera figliola,
Di perderzi di nuovo, e restar sola.

Benchè Titta stia sempre su l'avviso,
Che nol torni a mena chalch'un pel naso,
Pur a Nuccia fu fatto all'improviso
Un affronto non so, s'a posta o a caso.
Di turco haveva el vestimento e il viso
Un bamboccio di stracci, e il capo raso:
Era impalato, e il popolo confuso
Stava attorno a vedè 'sto brutto muso.

Un fraschetta sgherroso insolentello,
Che s'era insopportabbile già reso
Pe' le su' impertinenze, un gran bordello
Fava intorno al pupazzo. Il posto preso,
Haveva in mano un mezzo rimoncello,
Et ecco, che lo tira a braccio steso,
E iscammio di colpì quel babbuino
Giusto azzecca di Nuccia in sul crapino.

Pur fa un colpo da mastro, allor che sbaglia,
Se te glie fà casca tutto il gran monte
Del fettucciame, e ancor della ciuffaglia;
Tutia, e Tolla con lei restano tonte,
Nuccia poi si confonne, e la travaglia
L'esser pelata un pò, verzo la fronte;
Mò con la man procura di pararzi,
Mò vuò fuggir, non sa quello che farzi.

A cogliere il castello giù si piega;
Pe' vergogna, abbassata, non s'arrizza,
D'esser brutta gli par com'una strega,
E in sentir rider tutti, ha una gran stizza.
Titta la sbalza drento a 'na bottega,
Qui Tolla il campanile glie riadrizza.
Più d'un s'accosta, pe' vedè chi sia
Costei, ma il bottegar li caccia via.

Quell'ardito raponzolo, quel frasca
Già de 'sta bella botta s'era avvisto,
E tra la gente subbito s'infrasca,
Pe' la paccheta, c'ha de calche pisto;
Ma poi, come nel vischio il tordo casca,
Così costui c'incappa, perchè visto
Fu da uno sgherro, (senza sapè come),
Terribbile di faccia, e più di nome.

Non po' scappa non po', dalle su' mani,
Perchè lui, de potenza te l'afferra,
Et era un di quei dieci capitani,
Che dovevan con MEO marcià alla guerra.
Pe' farne poi strapazzi, et assai strani
Pe' i capelli lo tiè, l'alza da terra,
E perchè ha forza et è a 'ste prove avvezzo
Tonno tonno lo piccola un bel pezzo.

Fa 'sta faccenna con la man mancina,
E con la dritta gli da sganassoni
E pugni così forti in te la schina,
Che fan, ch'intorno l'aria ne risoni.
Piagne e strilla il regazzo, e si storcina,
Si raccomanna, acciò che gli perdoni,
Ma perchè vendicà lui vuò l'affronto
Di Nuccia, te lo pista come l'onto.

Sputamorti si chiama, et è un maiale
Assai granne, spalluto e corpulento,
Fa d'un paro di baffi capitale,
Che par, ch'a tutti mettino spavento;
Ha un neo peloso e riccio in tel guanciale,
Che gli serve d'un orrido ornamento,
E danno segno d'un cervel baiardo,
Severo il ciglio e ammazzator lo sguardo.

Se tratta, che quel povero regazzo
Si volze spirita' pe' la paura;
Pur di fargli assai peggio, 'sto bravazzo
Arciterribilissimo procura;
Fatto di tutti i su' capelli un mazzo,
A due mani l'acchiappa, e poi misura
Con lo sguardo un bel colpo, e quasi scaglia,
Tutto il putto quant'è nella muraglia.

Se da certi, costui non viè impedito,
Che le braccia gli tengono, sicuro
Per quell'impeto granne, c'ha ammannito,
E lo schioppa e l'appiccica nel muro.
Gliel vorrian far lassa; ma inviperito
Prova de novo, a fa' quel battimuro;
Alfin pe' non vede l'atto inumano,
La gente glie lo leva dalle mano.

Tonto il regazzo, ahimè! più non par esso
Scapigliato, somiglia un stregoncino;
Vuò fuggir, non sa dove, inciampa spesso,
Ch'in piedi appena reggesi il meschino.
D'havè gli pare Sputamorti appresso,
E con quello, il pericolo vicino.
Si sforza a curre, ogn'urto lo spaventa,
Lui stesso, di sè stesso orror diventa.

Si salva alfin. Ma non però più ardisce,
D'annà a fà, pe' la festa l'insolente,
E il baffuto campion s'insuperbisce,
D'havè azzollato quell'impertinente.
Và poi Nuccia a trovà, con lei complisce,
E glie domanda, se gl'occorre gnente,
Glie fa sapè l'orribbile strapazzo,
Da lui già fatto al malfattor ragazzo.

«Io son, - gli dice doppo, - gnora mia!
Del gran PATACCA amico, e di bon core;
Però esser devo di Vossignoria,
Che so quant'è a lui cara, servitore;
In tel vede quell'insolenteria,
Che glie fu fatta, me venì 'l furore,
Che non conviè, che tal'attion sopporti
Questo Suo servo e schiavo Sputamorti».

Nuccia, e le su' compagne hebber de guai
A tenesse, in vede' 'sta gran bestiaccia,
E sentì un nome non inteso mai,
Di non sbruffagli una risata in faccia:
Si ricordorno allor delli babài,
Che co' 'na spaventole barbaccia,
Alli su' figli piccoli, figura
Una matre, pe' mettegli paura.

Tutto rimedia Titta scarpellino,
Che s'inframette subbito, e risponne
Per Nuccia, ma fratanto un ghignettino
Mezzo strozzato, fecero le donne.
L'homini la discorzero un tantino;
Poi Nuccia il ringraziò, lui con profonne
Riverenze, finito il complimento,
Parte, d'havello fatto assai contento.

Titta pur con le femmine va altrove,
Arrivano in un largo, e quì ben anco
Trattenimento c'è di cose nove,
Vedennose un spettacolo da fianco;
Le cornici s'infiorano d'un bove,
Ch'è bello, grasso, mansueto, e bianco;
Su la schina a 'sta bestia ce sedeva
Un maschio, ch'una femmina pareva.

È costui ben vestito alla donnesca,
Con un bel manto di color di celo,
E con architettura pittoresca
Pende dal capo, e sventolicchia un velo;
La faccia propiamente è femminesca,
Se nel barbante non ci ha manco un pelo,
Che per homo a quel popolo lo scropa,
E fa figura della bella Europa.

Con la man dritta tiè un puntuto stocco
In atto di ferir, e per adesso
Sta fermo il bove, come fusse un ciocco
Fin che di fiori il cinto se gl'è messo:
Poi da un puncicarel di dreto è tocco,
Uno innanzi lo tira, e lui viè appresso;
Dove annerà, si vederà di breve,
Va intanto, adascio adascio, e greve greve.

Cammina innanzi al bove un'asinaccio
Guercio, impiagato, schifo, e senza coda,
Di questa iscammio, pennolone un straccio
Sul poco stroncicone se gl'annoda.
Gli serve di capezza un certo laccio
Fatto di paglia intorcinata, e soda,
Basto non ha la scorticata schina,
E un certo malscalzone lo strascina.

Vestito da Gran Turco lo cavalca,
Un che la parte sua la fa assai bene;
Attorniato è costui da una gran calca
Di regazzi, e 'l cotogno basso tiene.
Di scegne vista fa; ma non scavalca,
Perchè a forza la gente lo ritiene;
Mostra d'havè paura, e che vorrìa,
Quanno farlo potesse, scappà via.

Alla coda stracciona del Sumaro,
C'è chi ogni poco zaganelle attacca,
Poi gli dà foco, e in tel sentì lo sparo,
Zompa e trotta la bestia, e 'l Turco insacca.
Acciò non caschi, ogn'un gli fa riparo,
Perchè quella carogna, benchè fiacca
L'alza, lo sbalza, e lui da delle storte,
Finge di tracollà, ma si tiè forte.

El bove non ha più la zampa lenta,
Che lo spuncico cresce; va trottanno
L'asino del Gran Turco, e si spaventa
Costui, come che sfuggia un gran malanno.
Sul bove Europa, a seguitallo intenta,
Significa, che mentre al fier tiranno
Da lei coll'arme in man, si dà la caccia,
Il Turco dall'Europa si discaccia.

Chi sa 'ste cose interpretà, le spiega
Alle perzone sempliciane e sciote,
Più d'una donna el su' parente prega,
Che ben glie le dichiari, e faccia note.
C'è chalched'uno, che ne fa bottega
De 'st'interpretature, e ne riscote
Ringraziamenti e lodi, e ci pretenne
Quanno, a chi non le sa, le dà ad intenne.

Fanno intanto, gridanno come pazzi,
Per esser sempre a sbordellane avvezzi
Parecchi insolentissimi regazzi
A colui, che fa 'l Turco, dei disprezzi;
Solo però consistono i strapazzi
In coccie di merangoli, et in pezzi
Di melon guasto e fracida cucuzza;
Co' i schizzi, acqua sul grugno se gli spruzza.

Quel poverhomo, è ver, che fà fintiva
D'esser il Turco, e che strazià si lassa,
Ma quanno un tibi dabo poi gl'arriva
Gagliardo assai, la flemma se gli passa.
Si volta a quella gente, che veniva
Attorno a lui, pe' fagli da smargiassa,
E dice: «In grazia, stieno in ciarvello
'Sti regazzacci, e tirino bel bello».

Di tutti il capo sgherro, che commanna
Ad ogn'altro, è PATACCA, che lì venne,
Per ordinà la prima mossa, e manna
Ogn'un di quelli via, che il Turco offenne.
Si porta in mano, d'India la su' canna,
Minaccia colpi, e dove pò li stenne,
E mentre, hor questo et hora quello azzolla,
La baronaglia allor tutta si sfolla.

Fatto questo, capò mezza dozzina
Di ragazzoni meno impertinenti.
«Troppo, - gli disse, - 'st'homo si sciupina,
Non voglio nò, che tanto si tormenti:
Tiratigli voi soli in su la schina,
E non in altra parte, e state attenti,
Ch'altri non ci si mettino, che poi,
Io non me l'habbia da voltà con Voi.

Non s'addropino robbe da fa' male,
Ma scorze di cocommeri leggiere,
E coccie simiglianti, in modo tale,
Che paran poi saioccolate vere:
De grazia, non entramo in criminale,
Nè s'esca dalle cose del dovere;
Se fa chalch'un di più, te l'assicuro,
Che te glie sbatto la capoccia al muro».

Tutti, al bravà di MEO, quelli birbanti,
Che tozzolorno senza discrizione
Quel pover'hom, con tanti colpi e tanti,
Di già battuto havevano el taccone.
L'altri sei, che capò, furno osservanti
Dell'ordine già dato, e la funzione
Seguitò meglio, e ancora non si stracca,
D'annar altrove a fatigà PATACCA.

Va tuttavia giranno Mastro Titta
Con le due pavoncelle, e la grimalda,
Et ecco, a capo d'una strada ritta
Si vede gente unita, e assai ghinalda.
D'un altro Turco favano sconfitta,
Che da 'na corda, ben tirata e salda,
Ch'era a traverzo stesa, in giù pendeva,
Et un laccio impiccato lo teneva.

È il pupazzo, che straziano costoro
Di carbon frabicato, e ben inteso,
Sul petto ce sta scritto a lettre d'oro:
«Oh questo nò, non l'haveria mai creso!».
C'era drento un ordegno, et un lavoro
Pe' fa, che pozza starce un chalche peso,
E l'ingegniero, assai speculativo,
Ci haveva rinserrato un gatto vivo.

Parte in sù, parte in giù confusi stavano
In strada certi sgherri, che tenevano
I cacafochi in mano, e li sparavano
Inverzo il Turco, e sempre lo coglievano.
Le palline il cartone trapassavano,
E i sgnavoli del gatto allor crescevano;
Le genti, che lo strepito sentivano,
Dove stasse la bestia, non capivano.

Col rumor delle botte d'archibusci
Fava concerto l'armonìa gattesca,
Et ecco, MEO commanna, che s'abbrusci
Tutta allor la figura cartonesca.
Incominza quel gatto a fa' dei busci,
Mentr'arde la materia, acciò che n'esca
El grugno prima, e poi del corpo il resto,
Raspanno con le zampe, presto presto.

In più lochi il cartone alfin si strappa,
E a raprillo l'aiutano le fiamme;
Il gatto allor precipitoso scappa,
Ch'arzo ha 'l pelo, arzo il mucco, arze le gamme.
Zompa giù in strada, e dove pò s'aggrappa,
Lesta è in fuggir la gente, ch'è rasciamme,
Perche la gonza, ch'arrivà si lassa,
Brutta burasca da 'sta bestia passa.

Mò qua, mò là, già mezza abbrustolita,
Curre con furia, mozzica, e sgraffigna,
Quanto arrabbiata più, tanto più ardita,
Co' le granfie s'allancia ', e i denti sgrigna.
Pe' scampà da 'sta bestia inferocita,
Bigna ch'ogn'uno si ritiri, bigna.
Pe' paura d'havè delle sgraffiate,
Strillan le donne, come spiritate.

L'homini ancor dell'animal feroce
Hanno paccheta granne, perchè questo,
Quanto la scottatura più gli coce,
Tanto più imbestialito esce di sesto.
Chi dice: «Frusta via», con alta voce,
Chi salticchia, chi fugge, e chi assai presto,
Perchè al fianco ha la lama», la sguaina,
Pe' menà, se la bestia s'avvicina.

Qui 'l popolo si slarga, e là si stregne,
Che il fiero gatto, dove po' s'avventa;
In loco salvo ogn'uno si ristregne,
Se nò, la bestia le staiole addenta.
Quanto più fugge, più a fuggì costregne,
Quant'è più spaventata, più spaventa,
Più gente vede, più insalvatichisce,
Più caccia se glie da, più s'infierisce.

Currenno, alla ferrata ecco s'affaccia
D'una cantina, e perchè troppo è cupa,
El grugno, che già prima drento caccia,
Ritira fora, e più non si dirupa.
Non così và di pecorelle a caccia
Nelle campagne un'affamata lupa,
Come inverzo la gente, 'st'animale,
S'affiala, e se pò farlo, fà del male.

Mentre ogn'un dal pericolo si scanza,
Lui s'arrampica in cima d'un rastello,
Che sta pe' mostra, come è antica usanza,
In su la porta d'uno scarpinello;
Stima sicura assai quest'abbitanza,
Però fermo ci sta; ma un farinello,
Ch'ha lo schizzetto in man, piglia la mira,
Giusto in mezzo al crapino , e poi gli tira.

Te l'azzecca, lo sfonna, e del mostaccio
Ne fa 'na pizza, e 'l gatto scapocolla,
Casca giù in terra, come fusse un straccio,
E pe' vedello, il popolo s'affolla.
Entra allora in tel mezzo, un spiritaccio,
Dico un sgherro, che Sugo di Cipolla
Se ciama, e la raggione se ne renne,
Perchè fa piagne, chi con lui contenne.

Prima 'l gatto co' i calci in alto sbalza,
Pe' ben ciarirzi, se più vive e sfilza
Dal fodero la lama, e te l'incalza,
Sino che con la punta te l'infilza.
Doppo, come un trofeo per aria l'alza,
Pendono il core, il fegato, e la milza,
Perch'è sventrato, e lui la mano impolza,
Forte lo regge, e il sangue cola e stolza.

Mentre di quello il portator s'impiastra,
Gnente affatto curarsene dimostra,
Bench'habbia un gipponcin fatto di lastra,
Pel gusto ch'ha della gattesca mostra.
Se ne va con baldanza giovenastra,
Come trionfato havesse in guerra o in giostra.
Dreto prauso gli fa calca pedestra,
E chi sente s'affaccia alla finestra.

Da truppe di regazzi insolentelli,
L'animale infilzato si corteggia;
Non mancano chiassate, nè bordelli,
E sempre su 'sto gatto si motteggia.
Ma lassamoli sta' 'sti mattarelli,
Mentre il Turco da loro si sbeffeggia;
Per me vadino pur, ch'io quì li pianto,
Ch'altre cose ho da dir nel novo canto.

1790

Fine del Nono Canto.